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Inserimento scolastico dei bambini adottati.


Nel corso del 2012 la Commissione per le Adozioni Internazionali ha rilasciato l’autorizzazione all'ingresso in Italia per 3.106 bambini provenienti da 55 Paesi, adottati da 2.469 famiglie residenti in Italia. Per questi bambini , tutti in età di scuola dell’obbligo, al viaggio di adozione e all' ingresso nella nuova famiglia, si deve aggiungere in tempi brevi un altro cambiamento: quello dell’inserimento nella scuola. L’inserimento a scuola o nei servizi educativi per l’infanzia del bambino adottato avviene in media circa cento giorni dopo il suo arrivo, tempo utile che serve al bambino per adattarsi, nell' apprendere alcune parole della nuova lingua. 

Per la famiglia adottiva l’inserimento scolastico del figlio è vissuto come un rituale di iniziazione che sancisce la sua entrata ufficiale nella comunità di appartenenza, nel gruppo dei pari, nelle nuove parole e nei significati che esse veicolano, nelle norme e nelle consuetudini del vivere insieme. Gioia e preoccupazione sono le emozioni prevalenti che accompagnano i genitori, ma nel contempo  rappresenta la prima separazione dal figlio e di “messa alla prova” di se stessi come genitori. 
I genitori cercano di preparare con cura l’inserimento del figlio nella scuola interessandosi  del luogo che lo accoglierà: si informano sulle situazioni scolastiche più adatte, prendono contatto con gli insegnanti, negoziano con la scuola rispetto alla classe e ai tempi di inserimento. Questo potrebbe avvenire, in tempi abbastanza veloci oppure essere posticipato e graduale. Nella maggior parte dei casi (59,9%), la classe è coerente con l’età anagrafica; in altri casi (39,1%) è inferiore di uno o due anni. 

Per  il bambino adottato i vissuti emotivi rispetto all’inserimento scolastico sono intensi e immediati: entusiasmo, curiosità, gioia, paura, preoccupazione, confusione. Le fantasie e la paura dei bambini di essere nuovamente abbandonati, quando vengono troppo presto lasciati a scuola, la difficoltà nella gestione dello spazio e del tempo, il sentimento di diversità, rispetto al gruppo dei coetanei (differenze somatiche, di lingua ecc.) si configurano come un ostacolo all’integrazione culturale. Quando un/a bambino/a va in adozione all’età di 6, 7, 8 o più anni non soltanto perde i riferimenti ambientali precedenti, ma spesso anche il proprio nome; perde pure delle relazioni e dei ruoli che aveva nella famiglia o nell' istituzione in cui viveva, i modelli culturali interiorizzati, prima ancora di riuscire a stabilire legami sicuri e affidabili nella realtà di accoglienza. Il bambino che, per la prima volta, entra in una classe  sta vivendo uno snodo biografico  cruciale che segna profondamente il “prima” e il “dopo” ed è alle prese con emozioni  ambivalenti. Sta costruendo legami affettivi con il nucleo famigliare tra affidamento e  timori; vuole intrecciare relazioni con i pari, ma ne ha paura; ha un passato spesso segnato da dolore e solitudine e un presente carico di nuove sfide, troppo pieno di emozioni, di persone, di oggetti e giochi. Il punto cruciale è proprio questo ovvero il passaggio dal "vuoto" al "pieno" che interessa sia il bambino con la sua storia di abbandono che i genitori che, nella maggior parte dei casi, deve fare i conti con la loro mancata genitorialità.


L’apprendimento della nuova lingua rappresenta un’ ulteriore fatica, che ha portata e peso diversi a seconda dell’età. Per i più piccoli, imparare le nuove parole attraverso i modi e i tempi dell’acquisizione spontanea – facendo, giocando, “vivendo” quotidianamente la lingua – è un’avventura che ha carattere di tipo ludico e inconscio e avviene in un tempo abbastanza rapido. Per i più grandi, la situazione di “afasia” , il ritrovarsi privi di parole per esprimere bisogni, emozioni, affermazioni e saperi si traduce spesso in un vissuto di regressione e in forme di esclusione/auto-esclusione. A scuola poi non basta conoscere la nuova lingua per comunicare ogni giorno con i pari e con gli adulti: la lingua concreta, contestualizzata, del “qui e ora”. Bisogna conoscere anche il lessico astratto, le parole delle diverse discipline e le strutture linguistiche che servono a esprimere concetti, nessi logici, idee.

Spesso, accade che un bambino impari più rapidamente la lingua per comunicare rispetto a quella che serve lo studio e l’apprendimento – lingua veicolare per imparare i diversi contenuti – che richiede tempi lunghi, sforzi individuali notevoli e attenzioni linguistiche mirate e protratte (Abdelilah-Bauer 2008 ; Favaro 2002 ; Pallotti 1998) . La consapevolezza della “portata” e dei tempi diversi richiesti dalla seconda lingua per gli scopi della comunicazione e per quelli dello studio non è sempre diffusa fra gli insegnanti che accolgono un alunno adottato non italiano e anche fra i genitori adottivi. Così, quando il bambino diventa abbastanza fluente negli usi concreti della lingua, si pensa che sia altrettanto capace di apprendere senza difficoltà nello studio, senza considerare i tempi lunghi necessari per questo compito (Cummins 1989 ).

Di conseguenza, può succedere che venga valutato in maniera negativa un bambino che presenta ancora difficoltà linguistiche nella lingua dello studio, attribuendo le sue difficoltà a problemi cognitivi e non a problemi di tipo linguistico che si protraggono.  Potendo contare su scarse risorse comunicative per entrare in contatto e mantenere relazioni con gli adulti e con i pari (forme gergali, linguaggio del gioco e dello scherzo, linguaggio segreto...), il bambino adottato può fare ricorso a modalità non verbali, al linguaggio del corpo e questa “lingua dei gesti” permette quasi sempre di entrare nel gruppo dei pari e nelle attività. Ma le modalità di interazione non verbale non sempre sono approdi sicuri e condivisi; a volte possono essere considerate eccessive, estranee“minaccianti”; intrusive; o,viceversa, troppo reticenti e impacciate. Si tratta quindi di “decostruire”, almeno in parte, un certo modo di esprimersi attraverso i gesti e il corpo e di aiutare il bambino a orientarsi nel linguaggio comune.  Forme diverse di “iperattivismo” e di “disturbo verso i compagni”; o, viceversa situazioni di isolamento e di ripiego su di sé potrebbero essere probabili cause dei problemi di comportamento, da loro evidenziate in misura leggermente maggiore rispetto a quelli di apprendimento.

Dagli insegnanti di bambini provenienti da una adozione internazionale ci si aspetta che debba saper accogliere, contenere, sciogliere i momenti e gli eventi “critici”.   Per gli insegnanti l’inserimento del bambino adottato rappresenta una messa in discussione professionale e personale. Si intrecciano urgenze di tipo linguistico e didattico, ansie comunicative, dubbi e domande su scelte educative e temi da proporre o da spostare in là nel tempo.

Risulta indispensabile che si instauri un "patto educativo tra scuola e famiglia". Intrecciare relazioni costanti tra i due spazi educativi, negoziare i modi dell’inserimento, far emergere domande e punti di vista diversi , esplicitare le reciproche aspettative , i timori e le attese , progettare insieme giorno dopo giorno : sono questi i punti forti di un patto educativo tra la scuola e la famiglia in grado di accompagnare l’inserimento del bambino adottivo , condividere le scelte e il progetto educativo . 



Bibliografia


Bramanti, D., Rosnati, R., 1998,  Il patto adottivo,, Franco Angeli,  Milano
Rubinacci, C., 2001, L’inserimento scolastico del minore straniero in stato di adozione, Roma, Anicia 
L. Polli (2004), Maestra, sai... Sono nato adottato, Casa editrice Mammeonline, Padova


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